Poesie del disamore e altre poesie disperse
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«E sei come le voci / della terra – l’urto / della secchia nel pozzo, / la canzone del fuoco, / il tonfo di una mela; / le parole rassegnate / e cupe sulle soglie, / il grido del bimbo – le cose / che non passano mai. / Tu non muti. Sei buia. / Sei la cantina chiusa, / dal battuto di terra, / dov’è entrato una volta / ch’era scalzo il bambino, / e ci ripensa sempre. / Sei la camera buia / cui si ripensa sempre, / come al cortile antico / dove s’apriva l’alba» (C. Pavese).
Nella poesia di Pavese – siccome in ogni grande poesia – ricognizione del mondo oggettivo, e cioè, nella fattispecie pavesiana, Santo Stefano Belbo e Torino, campagna e città, ed estrinsecarsi di autobiografia interiore (definizione psicologica come ricordo di ragazzo: di ragazzo che perpetuamente si fa uomo) s’annodano indistricabilmente, al pari di mente e corpo nel parallelismo psicofisico di Spinoza. Se però in Lavorare stanca mondo agricolo e metropolitano, io e realtà esterna si articolano in un verso lungo, prosastico, viceversa nelle ultime poesie – segnatamente ne La terra e la morte e in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – il verso si spezza, esaurendo come in un’estrema amarezza la poesia-racconto degli anni giovanili. E dal verso infranto Pavese trarrà, con metrica esasperazione, certo altissimo, disperato lirismo. Rapido e sincopato come i tuffi del sangue. Come la musica che, nottetempo, scende dalla cupa collina.